ricette vegane, senza glutine e un po' della mia vita

SALAD JOBS #1 PAOLO PETRALIA= CUOCO VEGAN

Ciao! Oggi inauguro una nuova (in realtà prima) rubrica di questo blog Salad Jobs (vediamo se qualcuno di voi afferra la “fine” citazione musicale..). Ogni due settimane circa intervisterò un amico circa la sua passione-lavoro. Spero la troverete interessante e vi divertirete a leggerla.
Iniziamo con… Paolo Petralia (un obbligo seguire il suo, e di Alessandra, sito Vegan Riot e acquistare il libro Vegan Riot – La rivoluzione bolle in pentola!)

Raccontaci un po’ chi sei.
 Sono già in crisi alla prima domanda... Maschio, caucasico. Fino a qui tutto bene… Ho superato da un po’ il mezzo del cammin di nostra vita in maniera tutto sommato abbastanza indolore. Sono men che più noto alle cronache underground per un impegno musicale ormai ventennale, comunque svolto con basso profilo, senza darsi arie da salotto buono. Mi sembra di essere di fronte all’obbiettivo di The Club o ad un provino per il Grande Fratello… “sono simpatico, solare, mi piace stare con gli amici”… No, fondamentalmente sono una testa di cazzo abbastanza testardo con le sue teorie sulla vita, che possibilmente non richiedano troppa filosofia pregressa e sforzo fisico.


Quando o da cosa è nata la tua passione per la cucina?
 Mah, abbastanza presto, un po’ perché mi piace mangiare, un po’ perché mia madre, con cui vivevo, non era granché avvezza alla nobile arte a mezzo padella, un po’ perché mio padre aveva un ristorante con la sua compagna, un po’ perché sono andato a vivere da solo a 21 anni e per forza di cosa bisognava uscire dallo schema “pasta al pomodoro-insalata-spezzatino di soia”.
Avere gente a casa e condividere del cibo, se non buonissimo ma cucinato con il cuore è sempre stata un po’ una costante e diversi quintali di carta stampata occupano scaffali interi della sezione gastronomia della libreria di casa. La svolta cruciale è stata l’apertura del sito Vegan Riot, la cui spinta è venuta soprattutto dalla mia socia Alessandra e facilitata dall’avvento delle macchinette fotografiche digitali. Siamo stati pionieri a fare questo tipo di lavoro in ambito vegan e tuttora  dopo 6-7 anni continuiamo.  




Quando hai pensato che la tua passione si potesse trasformare in lavoro?
 Non è che l’abbia mai pensato effettivamente, è stato un po’ un caso. Organizzando questi eventi di Vegan Riot, cene luculliane, vegan, a Roma ed in un’ottica molto diy, il tizio di un ristorante che ci ospitava mi ha chiesto a fine serata se ero in cerca di un posto. Ero in crisi di identità con quello che facevo da sempre (i dischi!), c’ho pensato e dopo un mesetto l’ho ricontattato. Per un anno sono stato al suo ristorante e per altri tre in un altro ristorante. E’ semplicemente successo. E direi che non si trattava del sogno italiano… in termini strettamente economici, intendo. Dopo anni di bombardamenti televisivi su cuochi, cucine, gourmet e gourmand, sedicenti chef, probabilmente ci si è fatti un’idea balzana delle cucine dei ristoranti…



Speri di fare questo per il resto della tua vita? Se sì in che modo ti vedi crescere in questo campo?
Non è facilissimo. Già adesso sono senza lavoro di cucina, che all’ultimo posto m’hanno fatto fuori per far quadrare i conti. E non parliamo di un posto che non lavorava… Semplicemente la ristorazione è un campo minato. Oggi lavori qua domani la. E ciò va bene se sei un addetto versatile. Se invece se vegetariano/vegano ed i posti papabili in una città di un quattro milioni di abitanti e decine di migliaia di locali sono 4-5, beh comincia ad essere un po’ complicato. La soluzione sarebbe aprirselo da soli, ma anche quella strada la vedo faticosa. Nel senso, fammi pure lavorare 13 ore al giorno, ma stare a combattere con la burocrazia e scartoffie non è cosa mia. Però non è una cosa che ho escluso, anche perché potrebbe essere l’unico percorso. Se ci penso su un altro po’ è probabile che lo aprirà qualcun altro il prossimo ristorante veg*…


Se a diciassette anni ti avessero chiesto cosa avresti fatto nella vita oggi, cosa avresti risposto?
Non sapevo minimamente cosa fare a 17 anni. A quel tempo ero ad un rigido liceo scientifico che alla fine mi impiegò per ben sette anni, complice ormai il manifesto interesse per la musica. Di conseguenza sono stato uno dei pochi figli degli anni ‘70 di estrazione media-borghese che sapeva scientemente di non essere tagliato per lo studio ed a quel punto ero convinto che tra me e l’università non sarebbe mai stato amore. Ero piuttosto smarrito e pauroso sul futuro. Paradossalmente sono più tranquillo a riguardo adesso, alla soglia dei 40, che di tranquillità rispetto a prima ce ne è sicuramente molta di meno. “L’unica certezza resta la precarietà” cantava qualcuno negli anni ’80. Non so se ciò ricada tra le profezie o nel tirarsi la sfiga addosso…



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